venerdì 20 febbraio 2009

SENZA PAROLE

Oggi non parlerò.
Un amico è venuto a raccontarci una favola.
Il suo microfono è aperto.

"Questa crisi è spaventosa e meravigliosa. Navigavamo su un piroscafo immenso e illuminato. Neppure un passeggero che si trovasse d’accordo con l’altro riguardo alla rotta. Però era entusiasmante viaggiare. Ogni tanto un mozzo gridava «Uomo a mare!» Si trattava di gente straniera, miserabili in assoluto; allora qualche anziano, un paio di missionari, una bambina, si sporgevano dai parapetti con un’occhiata compassionevole. Ma il piroscafo non poteva fermarsi, non avevamo tempo, il futuro ci attende e le ricerche costano. Dal piroscafo caddero giù i più poveri, gli onesti, i puri, in una progressione impressionante: 10, 100, 1000 al giorno. Qualcuno disse: «E’ inevitabile.» Un giorno il capitano suggerì pacatamente al mozzo di piantarla con quel monotono “Uomo a mare!”. «Ci sfasci i timpani ogni minuto e poi lo sanno tutti che esistono i vincitori e i vinti». Marinai e passeggeri si azzuffarono, e si litigò per settimane come in patria. Ma nel piroscafo Italia, una sera, si presentò bellobello un architetto con un progetto di due soli punti. Il primo: ripristinare le classi e riassegnare le cabine solo e esclusivamente secondo rigidi criteri di mercato. Nessun valore umano, che non fosse smerciabile, avrebbe più dato diritto a qualcuno di veleggiare con gli altri. Per converso, chi aveva soldi e potere avrebbe sempre ottenuto la cabina di “primissima”. «Anche un serial killer?» chiese un incauto. La risposta fu che i serial killer erano un’invenzione dei magistrati per giustificarsi lo stipendio. Di sera in sera, l’architetto incantò e sedusse quasi tutti, perché quando diceva “mercato” sorrideva con i denti d’oro a raggiera e si vedeva chiaramente che a lui le cose andavano benone. E tutti vollero assomigliargli. In men che non si dica, i magistrati che viaggiavano in prima furono trasferiti in terza. I poeti, filosofi e scultori della terza, precipitarono in ottava (tranne un paio con i conti in Svizzera). Dalle stive e dalle topaie furono fatti salire in prima e seconda classe parecchi mafiosi, gli aderenti a certe logge, ex golpisti, molti loschi figuri dei servizi segreti deviati, e chiunque si scorticasse le mani alla sola vista dell’architetto. Il suo secondo e ultimo punto, fu semplice e incantevole: la musica su tutti i ponti, tranne quello di comando, doveva essere alzata al massimo per tenere alto l’umore dei passeggeri. Intanto, sui megaschermi delle sale riunioni, incessanti, scorrevano le immagini sublimi della terra che presto il piroscafo avrebbe raggiunto, lì dove ciascuno avrebbe ritrovato il suo paradiso perduto: denari e denari, giovani e giovanette discinti e disponibili, imprese e avventure, stipendi da capogiro, bonus e condoni tombali, pensioni d’oro, libertà assoluta e sfrenata felicità, “alla faccia dei pezzenti che si buttano a mare”. Qualcuno, giù in fondo, obiettò: «Ne siamo sicuri? Ma lei, poi, chi è? Inoltre è proprio certo che quei disperati si gettino a mare per scelta?» L’architetto schioccò il pollice e l’indice. Si precipitò da lui a quattro zampe un chitarrista napoletano. E sulle note di una rumbetta, l’architetto cantò a squarciagola: “L’italiano” di Toto Cutugno con qualche strofa variata da lui, perché, disse, io sono geniale. “Con l’autoradio in mano”, per esempio, divenne “con i miliardi in mano”, ma faceva sempre rigorosamente rima con “sono un italiano”. Il viaggio andò avanti così per qualche anno, e devo ammettere che se non altro si stava sempre più larghi, perfino nelle stive non si vedeva che qualche ombra denutrita, depressi recidivi, poeti impazziti, brava gente fallita e emarginata, insomma: “gentaglia”. Un bel giorno qualcuno gridò “Terra!”. Ma quando s’intravide, nella bruma, una specie di rozzo stivalaccio con due isolotti a mo’ di pantofole piantati in mezzo al mare, e un cartellino striminzito che faceva pena con su scritto “Sicilia” e un po’ più su a sinistra “Sardegna” e niente case sopra ma solo un immenso supermarket di cemento armato, e non alberi o gioie, ma una porcilaia a cielo aperto con un fumo nero e acre che veniva su da certe pozze fangose e ribollenti come latrine infernali, tutti si comprese che questa non era che una brutta parodia del luogo nativo. Ma era tardi per tornare indietro, e di carburante non ne era rimasta una goccia. In molti dissero “Dovevamo ammutinarci prima”. Ma anche per la rivolta era tardi. In quella, dal piroscafo si sollevò una saracinesca segreta. E un lungo piroscafo nero con a bordo l’architetto, il chitarrista, e una mezza dozzina di scagnozzi di lusso, con un’audace virata, prese il mare aperto tornandosene felice da dove, anni prima, si era partiti tutti insieme.
Ci avevano deportato. E non ce n’eravamo accorti.

Diego Cugia"



Buonanotte rukkacci maledetti

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